martedì, novembre 30, 2010

Il basilico

Era quasi tutto pronto per partire, ma un altro venerdì pomeriggio si consumava con la macchina parcheggiata in seconda fila, con mia moglie ed io a discutere su come riempire il bagagliaio.

Le bambine questa volta ci guardavano divertite dalla finestra: loro mi avrebbero raggiunto il giorno dopo assieme a mia moglie in treno. Io sarei partito da solo, con la macchina strapiena, alla volta della casa che avevamo affittato al mare per l'estate.

"Ma poi, il triciclo in spiaggia, quando vuoi che lo usiamo??", dissi lasciandomi cadere le braccia, guardando con poche speranze un bagagliaio che lasciava oramai poca libertà di inventare.

"Shhh... che ci sentono!", mi ammonì subito mia moglie, con uno sguardo complice, "lo sai che le bambine adorano il triciclo".

Misi in atto tutta la mia forza bruta per infilare il giocattolo dietro il sedile del guidatore, sapendo che il manubrio mi si sarebbe infilzato nella schiena per tutto il viaggio. Sorrisi e pensai che sarebbe stato un buon punto a mio favore, da poter usare durante le vacanze, in quell'enorme gioco a punti che mia moglie ed io eravamo oramai soliti fare rinfacciandoci piccole concessioni.

Mia moglie mi stampò un bacio e mi disse di andare piano. Stavo giusto nel mezzo del rituale del saluto alle bambine, che prevedeva una serie di baci alle mani e gesti che ricordavano un lanciatore di baseball, quando mia moglie, come colpita da una fulmine gridò:

"Il basilico!!", e detto questo si fiondò nel portone, per uscire poco dopo con un vaso di terracotta rigoglioso del miglior basilico del Tigullio, seminato e cresciuto sul balcone del nostro appartamento.

"Tu non dirmi niente, eh, fetente?", mi disse mia moglie. Sapeva benissimo che, in realtà, me ne ero ricordato, ma che non avevo detto nulla pur di non portarmi dietro anche quel vaso.

Non tentai neanche di smentirla, e mogio mogio trovai un posto per il basilico. Era almeno una settimana che, perlomeno una volta al giorno, un discorso con mia moglie veniva fermato con un "Mi raccomando, ricordati il basilico". In effetti era la prima volta che riuscivamo a mantenere in vita una piantina per più di due settimane, e con i suoi tre mesi in vita quel basilico aveva sicuramente superato ogni record.

Uscii dalla città e presi l'autostrada per il mare. La conoscevo bene, l'avevo percorsa tante volte. Poche volte, però, da solo. Celebrai questa novità concentrandomi sulla guida. Quando finalmente il sole scese e si fece meno caldo, ne approfittai per spegnere l'aria condizionata ed aprire i finestrini. L'aria della campagna era diversa, umida ma più buona di quella così calda e sporca di città.

Il mio idillio con il mondo campestre durò pochi minuti, fino a quando non sentii un rumore secco venire dai sedili dietro. Uno di quei rumori che non fanno presagire nulla di buono. Tentai di sbirciare qualcosa mentre guidavo, ma vidi tutto più o meno in ordine, così aspettai la prima area di servizio per dare un'occhiata migliore.

Dopo avere fatto il pieno controllai un poco la situazione tra i bagagli. In effetti il rumore non aveva mentito: qualcosa di poco buono era accaduto. Il vaso di basilico, cadendo, si era incastrato dietro il sedile del guidatore. Per meglio dire, quello che rimaneva del vaso. La vista dei cocci di terracotta mi risultò piuttosto fastidiosa: la sensazione di irreversibilità fu solo parzialmente consolata dal vedere la pianta un poco ammaccata, ma con le foglie ancora verdi.

In un atto che sperai venisse in seguito apprezzato da mia moglie, provai a salvare il basilico mettendo tutto dentro un sacchetto di plastica che, posato sul sedile del passeggero, non faceva neanche brutta figura come vaso d'emergenza.

Ripartii che il sole si stava abbassando sull'orizzonte delle pianura, creando quei colori che solo un tramonto o un'alba riescono a dare.

Deve essere stata la luce così dolce della sera, o la strada dolce e sgombra di macchine, ma una sensazione di pace e serenità mi avvolse. Un sorriso nacque senza avvisarmi, ed ebbi la certezza di vivere un momento di pura lucidità. Fu questo a permettermi di sentire, finalmente, l'odore del basilico. Era li da quando ero partito, proprio sotto il mio naso, ma solo in quel momento riuscii ad assaporarlo. Terra bagnata. Acqua, sole. Mediterraneo. Le narici mi pizzicavano un poco, e respirai ancora più forte per sentirlo ancora di più.

Il ricordo di quel viaggio venne fortissimo...

Mi ritrovo in macchina, bambino, seduto sui sedili posteriori. Il nonno che guida per portarci al mare: la nonna davanti e un vaso di basilico tra me e mia sorella. E’ talmente grande e rigoglioso che l’odore é fortissimo in tutta la macchina.

"Attenti a non romperlo, bambini!!", grida la nonna, preventiva, prima di girarsi verso il finestrino e chiudere gli occhi. Il nonno si gira e ci dedica un sorriso dolce. Mia sorella mi guarda e con un sorriso complice si mette un dito davanti alle labbra. Non dire nulla.

Vedo che dallo zaino tira fuori una busta di carta della panetteria. Ci mette le mani dentro e sembra che stia strappando qualcosa. Poi aspetta che la nonna si addormenti, come sempre, e tira fuori due pezzi di focaccia al formaggio. Mi si illuminano gli occhi.

“Siete tremendi”, ci dice il nonno mentre noi addentiamo la focaccia come se fosse il piacere piú proibito. Dallo specchietto vedo che sta sorridendo. “Io non ho visto nulla.. ma eliminate ogni traccia!”. Toglie una mano dal volante e dalla tasca estrae un fazzoletto. Senza girarsi, ce lo porge allungando il braccio. Dopo esserci puliti e aver ridato il fazzoletto, ci mettiamo a guardare il mare che la strada sta seguendo, e dopo poco ci addormentiamo uno dopo l’altro...

Mi resi conto di piangere solo quando mi ritrovai ad asciugarmi le lacrime. Alla prima area di servizio mi fermai, accarezzai il basilico, che mi aveva fatto capire una cosa. La pianta rispose con una nuova ondata di aroma. Allora presi il telefono e feci il numero che ancora mi ricordavo a memoria. Erano tre anni che non parlavo con mia sorella.

giovedì, maggio 28, 2009

qualche video



When you're scared of living - But afraid to die






martedì, febbraio 03, 2009

Vedo i topi



Mi ricordo la prima volta che vidi i topi.
Qualche anno fa avevo un lavoro particolarmente noioso, e non ne ero molto felice. La sera quando tornavo a casa mi sentivo svuotato di ogni energia, ed il tragitto in tram mi risultava particolarmente stancante. Fu proprio mentre aspettavo il tram, di fronte all'ufficio, che vidi il primo topo. Lo vidi passare velocissimo tra una macchina parcheggiata ed un'altra. Quando il mio collega, con il quale dividevo il tragitto verso casa, mi disse di non aver visto niente, pensai che probabilmente un'ombra mi aveva ingannato.
Da quel giorno vidi sempre piú topi. All'inizio ne distinguevo solo la forma, e le prime volte continuai a pensare che fossero solo delle ombre o dei riflessi ad ingannarmi, dato che ero l'unico a notarli. Andai persino da un oculista, anche se fui piuttosto vago riguardo il motivo della mia visita: non gli parlai dei topi.
"Vista stanca", mi disse. E mi diede un collirio. Lo portai al lavoro ed ogni giorno, dopo il caffé, mi mettevo un paio di gocce. Ma i topi continuavo a vederli: anzi, li vedevo sempre meglio. Cominciai con il distinguere la coda. Smisi anche di commentarlo al mio collega, cominciava a diventare imbarazzante la cosa.
Con il tempo ne vidi sempre di piú, di topi. Li vedevo in ufficio, nascondersi dietro il computer quando mi chinavo per accenderlo. Addirittura un giorno li vidi che rincorrevano il tram, saranno stati cinque o sei, mentre tornavo a casa: quel giorno avevo avuto una discussione con il capo al lavoro.
Fino a quel momento dei topi non mi ero preoccupato piú di troppo, ma vederli rincorrere il tram mi agitó. La sera stessa chiamai un amico per parlargliene, ed una volta arrivati alla seconda birra gli raccontai tutta la storia. Fu molto difficile, ma ci riuscii: gli spiegai gli inizi, gli dissi che li vedevo ovunque, e che in quel momento esatto ne stavo vedendo un paio che entravano nel bagno del locale.
Il mio amico si fece serio, ma poi tutto d'un tratto scoppió a ridere: "Questa é la stronzata piú grossa che abbia mai sentito!!", disse buttando la testa all'indietro.
Sbatté una mano sul tavolo, mentre con l'altra si stropicciava gli occhi "i topi cazzo, no dai questa é stupenda… ma come ti é venuta in mente???", non riusciva a smettere di ridere, facendomi anche il verso, "vedo i topi vedo i topi!!!, va che per un attimo ci ho creduto.."
Non sapevo cosa rispondere.
"Eeeh", dissi allungando il bicchiere come per fare un brindisi, ridendo anche io per seppellire la discussione. Decisi allora di tenere i topi per me.
Una sera vidi un documentario alla televisione, il protagonista era un inglese di origini italiane che si faceva il giro dell'Italia sulla sua fiammante spider rossa. Era di produzione inglese, e quindi era fondamentalmente un'accozaglia di luoghi comuni sugli italiani: mi piaceva moltissimo, sono sempre andato pazzo per i cliché. La puntata di quella sera si svolgeva in Calabria, l'ultima tappa prima di raggiungere l'agognata Sicilia, meta finale del documentario. Le immagini prima mostrarono una sequenza del presentatore che sfrecciava sulla sua macchina lungo la statale a fianco al mare, e nella scena dopo vi era una intervista ad una vecchia sdentata. Vestita di nero, ed in mezzo a trecce d'aglio e pomodori essiccati, leggeva il fondo del caffé che il presentatore aveva appena bevuto.
Mentre il documentario spiegava riti e superstizioni legate al fondo del caffé, mi girai per guardare fuori dalla finestra e mi misi a riflettere: sul davanzale c'erano due bellissimi topi, con un pelo marrone lucido. Mi resi conto che i topi avrebbero potuto essere il mio fondo del caffé. Che avrei dovuto prestarvi attenzione, interpretarli.
Applicandomi nell'esercizio di intepretazione dei topi, cominciai a notare una corrispondenza tra i topi ed il mio umore. Quando ero nervoso, i topi aumentavano. Quando ero allegro, i topi non scomparivano mai del tutto, ma saltavano allegramente di qua e di lá. Anche la loro apparenza cambiava, potevano essere grassi e con il pelo lucido, oppure apparire sciupati e di un colore grigiastro.
Erano oramai parte della mia vita. Quando la sera andavo a correre, all'inizio erano in molti a seguirmi ma mano a mano che sudavo e la mia mente si liberava il numero di topi scendeva. Di solito mi fermavo quando ne rimanevano solo due o tre; non pensai mai di correre fino a liberarmene. In piscina invece li vedevo ai bordi, che scorrazzavano in giro, vicino alle ciabatte lasciate dai nuotatori.
Quando la sera uscivo, mi divertivo a vederli in giro, a saltellare quando anche io mi sentivo bene. Una di quelle sere conobbi una ragazza: fu lei a venire a parlarmi per prima, mi disse che la stavo fissando, e disse che non si poteva guardare una ragazza cosí senza offrirle da bere. In realtá aveva un paio di topi sulla spalla sinistra, e io stavo osservando loro mentre si grattavano a vicenda, ma pensai che sarebbe stato meglio offrire da bere alla ragazza e basta. Lei era molto carina, e ci scambiammo i numeri di telefono. Cominciammo a vederci sempre piú spesso. Andavamo d'accordo, stavamo bene e finimmo con il passare insieme la maggior parte del tempo che avevamo. Finalmente con lei sentii svanire quel peso sul petto che sentivo da tanti anni, e che mi accompagnava da troppo tempo. Con lei i topi erano sempre puliti ed in buona salute.
Poi un giorno non vidi nessun topo. Eravamo andati al mare in Liguria, per il fine settimana. Mi pare fosse verso la fine di aprile. Furono dei giorni bellissimi, che passammo a camminare sulla spiaggia e a fantasticare sulle barche ormeggiate al porto. Quando stavamo tornando verso Milano mi resi conto che quel giorno non avevo visto ancora nessun topo: guardai fuori dal finestrino e non ne vidi nessuno. Provai una sensazione strana, pensai che forse era un buon segno. Tornai a casa e prima ancora di togliermi la giacca andai a vedere sul davanzale, dove i topi di solito stavano, oppure sotto il tavolo vicino alle patate, che ero sicuro di averli visti lí prima di partire. Nulla.
Andai a letto continuando a pensare ai topi, a dove si erano cacciati. La mattina dopo mi svegliai e ancora non vi era alcuna traccia dei topi. Pensai che erano spariti, e pensai che, forse, amore era mandare via i topi.
Continuai a non vedere topi per diverso tempo, poi una sera litigai con la ragazza. Eravamo entrambi nervosi, e finimmo per il litigare su come si doveva preparare la besciamella per la lasagna: per me non vi era alcun dubbio, la cosa migliore era comprare quella confezionata. Il litigio si fece sempre piú intenso, ci dicemmo cose che ci ferirono a vicenda e finii con l'andarmene da casa sua sbattendo la porta. Ero furioso. Decisi che non sarei certo stato io a chiamare per primo, che non avevo nulla di cui scusarmi. Saltai in macchina, presi una sigaretta e schiacciai il bottone dell'accendisigaro. Guardai fuori dal finestrino. Quando scattó l'accendisigari, mi girai per prenderlo e con la coda dell'occhio vidi un topo che si infilava sotto il sedile del passeggero.
Mi accesi la sigaretta, ed aspettai.
Dovetti aspettare quasi un'ora, ma piano piano i topi uscirono da sotto il sedile e popolarono la macchina.
Accesi il motore e mi avviai verso la tangenziale. Il telefono squilló diverse volte, ma non ci feci caso. Presi l'autostrada in direzione Genova, guardai i topi che stavano sul cruscotto e dissi:
"Voi non ci siete mai stati in Liguria, vero?"

lunedì, settembre 08, 2008

Un nuovo Bruno Pizzul?

da adesso giovannibinet udibile anche sulle frequenze di bet365.com

martedì, settembre 02, 2008

Il Brancher


Ho sempre pensato che, nella vita, crearsi delle aspettative sia controproducente: si vive costantemente nell´ansia di riuscire a rispettarle, e si rischia di non godere nulla del momento e del buono che la vita di dá. Fino ad adesso sono sempre riuscito ad evitare di pensare troppo a qualcosa che era pianificato, ho sempre schivato con cura tutte le emozioni che un'attesa porta con sé.

Ma con il brancher non ci sono riuscito: era troppa l'eccitazione, troppo l´entusiasmo per non fermarmi a pensare spesso al branco riunito per la prima volta per diverso tempo, al branco in spiaggia, al tramonto, per strada, la sera.
E cosí sono arrivato alla partenza del brancher nelle peggiori condizioni possibili: pieno di aspettative e teso, teso come una corda di violino. Non so se i miei compagni di viaggio, spesso poco indulgenti nei miei confronti (ma come biasimarli?), se ne siano resi conto. Sentivo addosso il peso dei desideri, l´ombra di quello che si attende, la paura di fallire.

Ma mi sbagliavo. Sporco, stanco, senza voce e quasi abbronzato: cosí mi sono presentato a Luna all´arrivo del brancher a Granada, un arrivo salutato da cordiali minacce di morte. Quella sabbia dovunque, quella maglietta sporca di crema solare, quella voce che sa di poco sonno e tanta stanchezza erano la mia prova, la prova che il branco aveva colpito ancora. Sí, gli occhi erano aperti appena, ma erano lucidi. Quella smorfia di malinconia non era altro che un buon segno, quel continuare a toccarsi, a parlarsi, a guardarsi per i vicoli dell´Albaizin non erano altro che piccole maniere di tentare di resistere, di trattenere quello che mi era rimasto dentro del brancher.
Ed adesso lo posso dire: al diavolo le aspettative. Che roba, il brancher!

Feffo ha giá raccontato con una maestria che ogni giorno mi affascina sempre di piú il nostro viaggio, le sue emozioni in mezzo a noi, con un piccolo diario che vedevo crescere ogni giorno. Non voglio quindi ripercorrere le tappe della nostra vacanza, ma mi piace pensare a piccole fotografie di quello che abbiamo vissuto insieme. Provo a scriverle qui sotto, sparse.

L´insediamento - Generalmente con il brancher non si parcheggia, non ci si ferma: ci si insedia. La procedura prevede un lungo e spesso penoso dibattito su dove sistemarsi, dibattito dal quale Ale generalmente si astiene e nel quale io di solito vengo prontamente zittito: poi ci si ferma, finalmente, ed in quel momento ha inizio un apperente caos. In sei ci muoviamo istericamente come delle formiche quando sono ammassate in un formicaio: sembra che nessuno sappia quello che stia facendo, ma in realtá non é sempre cosí. Ad esempio Fede sta modificando una playlist, Ale sta cercando qualcosa che ha perso, Sasha si sta lanciando sul letto, Stefano é sceso dopo essersi fatto un fettino di salame e sta mandando un messaggio scrutando l´orizzonte, Mattia si lava i denti e poi pulisce un po' mentre io imparto ordini a chiunque sfiori il mio sguardo. Ma é il momento in cui si fa sul serio, in cui ci prepariamo.

La cena - La cena é il momento che preferisco, il momento in cui vedo il branco muoversi come una orchestra perfettamente collaudata. Il russo ai fornelli rigorosamente senza maglietta, Mattia ai mojito, mentre rapidamente tra una fetta di salame e l´altra apriamo la veranda e montiamo tavoli e sedie con vista mare. Ed é uno spettacolo stare seduti in penombra, a scofanare piatti di pasta e brindare, a godere di un momento per noi, a pensare alla serata, a chiedere ad ale le tattiche giuste per muoversi nella fiesta, a dare dei motivi a Ste per prendere la rincorsa con il fiato quando mi chiama "The Cagaminchia". La cena é quando ci guardiamo in faccia, riprendiamo le forze, ci sediamo e buttiamo la testa all´indietro allungando i piedi, guardiamo il tramonto colorare il cielo e le nuvole, sentiamo le mucche dietro il campeggio, ci facciamo la doccia in spiaggia, beviamo una birra gelata, regoliamo il volume della musica. E pazienza se ogni tanto il russo tossisce, e tossisce, e tossisce.

La notte - La notte spesso é il centro di tutto, perché é magica, perché é lunga, perché la si aspetta tutto il giorno. Per me no. Per me é soltanto uno dei momenti da passare insieme, e la notte forse é quello che ci divide di piú, dove si puó scegliere se stare in disparte con qualcuno o anche da solo. Quella notte che viene preceduta da una meditazione collettiva e da una rapida vestizione con i pochi indumenti a disposizione. Un colpo di crema doposole divenuta proprietá comune, ed il branco é pronto a terrorizzare i banconi dei bar, dati i fiumi di vodkaredbull visti scorrere per le terre iberiche, fino ad una plaza de toros dove il padrino Fede ha istruito Ale di non si sa quali massime del mondo. Il branco ha cominciato in sordina le sue sortite notturne, spaventato dalle germane di turno, ma poi come un disco che ha solo bisogno di un colpetto per disincantarsi, al grido di "Manicones!" si é svegliato. Forse perché siamo proprio un branco di manicones, e cosa altro?

Il mare - Il mare lo vediamo tante volte, lo cerchiamo. La prima volta é una visione, é la consapevolezza che ci siamo, che siamo finalmente noi insieme per davvero veramente. E non resistiamo, mentre ci spogliamo ed in mutande ci lanciamo nell´oceano, con onde lunghe e potenti che non vogliono farci stare in piedi, delle nuvole enormi che cacciano via il sole, e sulla spiaggia di Biarritz respiriamo la magia della partenza, del mattino, di un'orizzonte che scrutiamo pieni di speranze, dell'acqua che sbatte contro la terra e crea una nebbia salmastra nella quale ci piace respirare. Mi ricordo anche del mare di Donosti, di quando un´onda mi voleva tenere giú, di quando per la prima volta parliamo tutti insieme, ed é uno di noi che chiede un poco aiuto, e io penso che il bello di stare insieme é proprio questo. E poi il mare di Tarifa, di nuovo con il sole basso, il sole del sud, questa volta al tramonto quando arriviamo, e capiamo che tutta la fatica non é stata vana, che se il russo passa la notte con il suo sciroppo allora é fatta. O le giornate in spiaggia, con Feffo che si cura come una modella, e mentre gli altri leggono o ascoltano musica a me piace non fare nulla, mi piace guardare. Guardare i miei amici, come si scrutano, come si muovono. La spiaggia é anche quando giochiamo a rugby, tutti insieme, che io nel fondo c´ho paura di crollare addosso a Ste, mentre le mani del russo mi fanno vedere cosa é un placcaggio al friol e Ale saltella e allunga le sue leve per prendere un lancio di Mattia. Meta. E poi rischiare la vita quando le cime dei kite ti passano di poco sopra la testa, ed alzare lo sguardo e vedere tante piccole comete che riempiono il cielo.

Il viaggio - Cosí si comincia e cosí si finisce. Si comincia salendo prima sulla scaletta brancher senza scarpe per non sporcare, pieni di curiositá ed entusiasmo, mentre un Max qualsiasi ti spiega con trasporto ma sommariamente cose che pochi secondi dopo dimenticherai, con Garo lí, che pochi scalini lo separano dal venire con noi. Si comincia anche con una briscola finita male. E si finisce scendendo dal brancher, facendosi largo tra sabbia e scarpe lanciate a caso, camminando sulle ciabatte lasciate sugli scalini. In mezzo, tra l'inizio e la fine, ci sono chilometri, chilometri, chilometri…. Chilometri che per la prima volta li sento veramente lunghi, vissuti ad una velocitá che spesso odi ma che in altri momenti ti sembra perfetta, cosí in armonia con la strada, che ti lascia assaporare il paesaggio, ti dá il tempo di osservarlo. E poi dormire dietro, e svegliarsi perché quello che guida sicuramente stará andando a centoquaranta in una strada sterrata, dai salti che senti, e gridare "Piano cazzo!!!", e poi guardar fuori e vedere che sei sempre a novanta sull´autostrada. O dormire sopra, poche volte per me, pensando se quel tettuccio di plastica reggerá sul serio, sentendoti in una piccola capsula con l´aria che si sbatte contro, e sperando che non arrivi la frenata brusca. E ancora alzarti a raccogliere perché é caduto qualcosa, farti largo in bagno tra i costumi appesi, trattenendo il fiato per non sentire il profumo dello stalliere. O alzarsi reggendosi in equilibrio a stento e lavare veloce una pesca enorme, e passarla a Mattia che legge sempre lo stesso libro, mentre Ale ne legge uno a caso ed allunga le sue dita in qualche sacchetto di patatine. Fede é dietro che guarda il soffitto, o pensa, o chi lo sa che cazzi ha. Davanti Ste fuma, e quel bastardo del leader canticchia da solo e tira sberle a Ste, ma poi gli chiede se gli lascia due tiri…e Hurricane che urla dietro..

Alla fine, del brancher mi rimangono diverse cose, e come sempre tre conferme.
La conferma di noi, insieme, ma non ne avevo bisogno.
La conferma, di come sia bello condividere, soprattutto le cose piú belle, e mi rimane dentro, forte e vivido, l´arrivo del brancher a Granada.
E poi la conferma che il tempo passa, e che per la prima volta questo tempo lo vedo veramente passare: lo vedo nei nostri occhi, nelle nostre storie, nei nostri pensieri. Lo vedo nel cambiamento, in quel cambiamento che la vita ti impone e che tu tenti di subire il meno passivamente possibile: puoi fare finta di evitarlo, ma c'é. Non solo c'é, ma ti indurisce anche un po'. Siamo cresciuti, tutti: mi piacerebbe saper dire chi é cresciuto bene e chi no, ma non lo so proprio, e tento di trovare qualcuno che me lo possa dire, ma siamo tutti sullo stesso brancher. E siamo tutti in mezzo ad una strada, sí, in mezzo a quella strada che ognuno deve decidere come prenderla e nessuno ti dice come, ma che quando per un po' si percorre tutti insieme la senti scorrere fluida e sicura, come un camper con dentro sei manicones

venerdì, giugno 06, 2008

Un foglio excel

Prendo spunto da una discussione di qualche tempo fa con ale, vecchio cazzone, per ripensare alla mia routine. I miei task. Tutti gli Aufgabe da erledigen. Tante tareas. Insomma, la mia vita. E penso a come la organizzerei in un foglio excel.
Nella prima colonna a sinistra ci vanno le ore della giornata. La prima riga comincia dalle sette, prima non si puó. Le ore che si trovano prima delle sette di mattina sono, per noi uomini normali e mediocri, delle ore tabú: guai a nominarle!! "Domani ho un aereo alle sei e mezza": poverino, mi dispiace. Oppure: "Pensa che quello si sveglia tutti i giorni alle cinque e mezza!!": presto, spalancategli le porte del paradiso!!!. Nella riga seguente della stessa colonna si potrebbe inserire il tempo di cui si ha bisogno per raggiungere il proprio posto di lavoro. L'inglese, linga secca ma efficiente, ha un vocabolo apposito: "commuting time". In napoletano, lingua pittoresca ma barocca, penso che si direbbe "U tiemp ca ce mett pa ghi a faticá".
E via cosí, nella colonna sinistra tutte le ore della giornata.
La seconda colonna riguarda il titolo di quello che faccio. Questa colonna é quella che contiene forse l'informazione piú importante di ogni riga. Colazione. Caffé di metá mattina. Controllare la posta. Telefonata a casa.
La terza colonna conterrá la descrizione di quello che faccio. Qui posso sbizzarrirmi. Devo scrivere qualcosa di piú riguardo al titolo, mi deve fare capire nel dettaglio quello che devo fare. In maniera che, se per caso me lo dimentico, lo leggo e mi ricordo tutto. Ad esempio, andare al lavoro: prendere la linea rossa e poi il 27. Ok. Questa colonna la allargo anche un pochino, per rendere il tutto un poco piú estetico.
Un'occhiata alla tabella: comincio a sentirmi male, posso scrivere tutto nel foglio excel. Continuo.
La quarta colonna contiene le persone con le quali interagisco in quello che faccio. Ad esempio, nel pranzo scriveró probabilmente i miei compagni di lavoro. Per la palestra, probabilmente scriveró dell'energumeno che sembra vivere tra le macchine infernali e con il quale mi scambio sempre un cenno d'intesa. Sará mica gay? Una domanda: devo scrivere che interagisco con qualcuno quando sono su internet a chattare o a scrivere email? Nel dubbio, metto che sono da solo.
La quinta colonna contiene la difficoltá dell'esercizio che devo compiere. Chiaramente sotto la voce palestra metto difficoltá massima. Per questa colonna uso la formattazione condizionale. Sfondo rosso e lettere in grassetto per la difficoltá massima. Verde e corsivo per quella minima.
Mi rendo conto che sono poche le cose che reputo difficili. Ma forse ho bisogno di un'altra colonna…
La sesta colonna! Questa la dedico a quanto mi piace quello che devo fare. Massimo godimento per il pranzo (anche se non so, se viene quel collega lí non é che poi mi diverta cosí tanto..), minima soddisfazione per mettere a posto dopo cena, stirare e farsi la doccia.
Decido che voglio mettere un'altra colonna "soggettiva", che non riguardi quindi un fatto ma la mia percezione di esso. La settima colonna riguarda la necessitá di quello che devo fare. Qui uso un codice numerico. 1 per qualcosa che non posso evitare (lavoro, mangiare). 2 per qualcosa che posso saltare qualche giorno (controllare la mail; andare a correre; doccia…. Nah, meglio metterla a 1). 3 per qualcosa di completamente futile (guardare dei video in giro, uscire la sera con gli amici, leggere un libro). Incredibilmente questa colonna si trova legata in maniera inversa a quella che la precede.
Il foglio excel si riempie rapidamente. Ho ben chiaro in testa cosa devo fare, quando, con chi e come. Ci metto anche molto poco a dire cosa mi piace, cosa devo fare, cosa é facile. Le caselle si riempiono.
Una volta finito, mi fermo un attimo e guardo il monitor. Mi aspetto di provare un senso di autocompiacimento per l'impresa realizzata, ma al contrario mi sorprendo dubbioso. E con tre pensieri in testa.
Il primo pensiero é che la mia é una vita qualsiasi, uguale a quella di altri milioni di persone. Ho un piccolo moto di repulsione e di individualismo, ma poi penso che siamo in sette miliardi qua in giro e me lo faccio passare.
Il mio secondo pensiero é che la tabella é piena. Non c'é un buco. Certo, potrei allargare le ore produttive: non ci sono forse quelli che dormono 5 ore a notte? E poi, perché non contare il sonno? Ok, lo faccio, ma cambia poco, ho una riga in piú.
Dentro di me monta il malessere, mentre guardo questo foglio ricco di righe e di colori. Dopo un poco capisco. Se é pieno vuol dire che non posso fare piú niente nella mia vita.
Ma non volevo imparare la chitarra? Non volevo leggere duecento romanzi? Non avevamo mica detto che mi sarei dedicato maggiormente allo sport e a pulire casa? Bisogna scegliere. Bisogna tagliare via, come se si avesse a che fare con dei rami secchi, tutte quelle cose che non ci portano a nulla.
Questo mi porta al terzo ed ultimo pensiero. Il terzo pensiero é la consapevolezza del tempo. Capire che il tempo é limitato, che é prezioso, che ci dobbiamo dare una calmata, che dobbiamo rispettarlo.

mercoledì, maggio 28, 2008

Una sera a Schwabing

Fa caldo, finalmente.
Torno a casa e il mio solito istinto idiota mi porta al computer. Vado a controllare la posta che ho guardato per l'ultima volta mezzora prima, ma qualche intervento divino mi ferma dal farlo. Sento di aver fatto una buona azione nello spegnere subito la macchina infernale. Beh proprio subito no, visto che ho fatto in tempo a leggere dell'ultima bambinata di Moratti.
L'avvento del caldo piú lo spegnimento del computer vanno festeggiati, mi dico.
Mi metto maglietta pantaloncini infradito, perché é estate, diamine, e prendo la porta. Mentre scendo le scale penso a cosa potrei fare, penso che dovrei far la spesa, e che forse é la volta buona che trovo l'ammoniaca al supermercato.
Poi sul portone mi fermo. Sento l'aria fresca sul dorso dei piedi, disabituati dall'inverno ad essere cosí esposti al pubblico ludibrio. Penso un attimo di essere vestito troppo leggero, machisenefrega.
Decido di celebrare questo momento, senza alcuni tipo di motivo. Al diavolo la spesa. Che mi faccio, una birretta? Nah, non mi sento benissimo e poi sicuro mi ubriacherei da solo, cosa particolarmente triste. Sizza? neanche, ho giá il naso tappato, mi sentirei ancora piú da schifo. Ho una idea, non faccio nulla. Vado nella piazzetta, mi siedo e non faccio nulla.
Geniale.
Mi incammino con un passo lento, un passo a cui le mie gambe non sono piú abituate. Mi fermo a comprare un Brezel, giusto per sentirmi bavarese.
Arrivato alla piazzetta, non dopo aver notato nuovi particolari di una via che percorro ogni giorno, i miei piani vengono subito messi in dubbio: tutte le panchine sono occupate. Scheisse. Ho un attimo di indecisione, ma penso che questo piano di non far nulla sia veramente geniale, devo assolutamente metterlo in atto, ed allora mi siedo sul bordo della fontana. Una di quelle che d'inverno vengono chiuse da delle copertine di legno, talmente belle che chissá quanto tempo fa le hanno fatte.
Ma adesso la fontana é scoperta, libera di zampillare, e libero lo é anche un bamboccio mezzo inglese che ci corre attorno esaltatissimo e continua a schizzarmi. Non riesco a fare a meno di pensare alla capacitá dei bambini di divertisti con delle cose che a noi sembrano inutili, che invidia.
Mi giro intorno per vedere se qualche panchina si é liberata, ma non é cosí. Ci sono sempre le stesse persone. Ad osservarle bene, sono tutte simili. Mi spiego meglio, sono tutti con una birra in mano. Ma non con un'aria da aperitivo, non sono esattamente la Schwabing da bere. Se ne stanno tutti lí che sembrano appena usciti da una riunone degli alcolisti anonimi. La riunione non deve essere andata benissimo, visto lo sguardo vuoto che hanno. Se ne stanno a piccoli gruppetti di due o tre, all'apparenza slegati tra loro, ed ognuno ha la sua Augustiner in mano. In una panchina ci sono i soliti punk, dei ragazzi che avranno sí e no sedici anni, con una signora di mezza etá che é da novembre che mi chiedo se sia la mamma di uno di questi. Li trovo piú rilassati, questi punk, di quando li vedevo quest'inverno.
Una coppia su di una panchina coglie la mia attenzione. Sono slavi, o dell'est, con un'aria triste. Lui é alto e magro, lei é in minigonna ma ha un'aria stanca. Forse ha pianto. Sono seduti uno a fianco all'alto, lei appoggia la sua testa alla sua spalla e il braccio sinistro di lui le cinge le spalle. La mano destra invece… le sta palpando una tetta! clamoroso, lui si dá da fare nella scollatura, peraltro generosa, mentre lei guarda l'orizzonte con degli occhi vuoti. Ad un certo punto lei si stufa e gli toglie la mano, lui si alza, la accarezza dolcemente (beh, dai, allora non é proprio un porco) e se ne va verso il supermercato. Penso che comprerá delle birre, sicuro.
Lei non alza neanche lo sguardo, e non voglio neanche pensare a cosa possa esserle successo per farla stare cosí. Intanto il bambino continua a schizzarmi e a divertisti come un pazzo, i punk se la sciallano e gli altri bevono. La mia attenzione si sposta allora sui passanti: a differenza di chi sta seduto, loro sí che hanno un'aria sana, felice. Soprattutto quelli in bici. O quelli che corrono, quelli sembrano proprio i piú fighi della cittá: belli, magri, alla moda. E Chiaccherano mentre corrono, cosa che personalmente non mi é mai riuscita di fare, penso per un mero problema di coordinazione gambe-polmoni. Mi rendo conto che io sono nel gruppo dei seduti, ma non me ne cruccio piú di troppo.
Vedo che il-tipo-della-tipa-triste esce dal supermecato, e con mia grande sorpresa non ha in mano una cassa di birre. Ha una scatolina in mano. Che carino, penso, le ha portato un gelatino, magari la bomboniera, il vero gelato sociale. Ah no, mi son sbagliato. Le ha portato delle bottigliette mignon di Schnapps, come la chiamano qui, una sorta di grappa. Cioé, non ho idea di cosa sia, né del sapore che abbia, ma temo sia veramente terribile. Ad ogni modo questi stanno proprio in mezzo ad una strada. Lui apre una bottiglietta e la infila nella mano di lei che passivamente, incredibilmente passivamente, accetta. Poraccia, penso io.
Rimango un altro poco a guardarmi in giro, piano piano le panchine si vuotano, anche gli alcolizzati hanno una casa. Comincio a starnutire troppo frequentemente, e le mie infradito mi sembrano tutto d'un tratto un poco azzardate.
Quando anche i punk sono tornati alla loro magione, mi alzo e me ne vado, contento di conoscere finalmente la piazzetta sotto casa.

martedì, maggio 20, 2008

16

filmato

giovedì, febbraio 21, 2008

Down in Mexico

sabato, febbraio 16, 2008

Il mio autista

Curioso: autista, in spagnolo, significa autistico. Insomma, un nome in italiano è un sostantivo in spagnolo.
Ma l'autista è anche il signore, il capo, The Man, dell'autobus. E' oramai da sei mesi che sono tornato a frequentare il magnifico mondo dei mezzi pubblici. E devo dire che ne sono molto contento.
Zurueckbleiben, bitte. E si chiudono le porte del metro. Ad ogni fermata, si aprono e si chiudono. Mi piace guardare la gente che entra, sono uno di quelli che sta tutto il tempo a spiare nel libro nell'altro, a tentare di capire che musica ascolta il mio vicino. Quello che tiene l'orecchio teso per ascoltare la conversazione dietro: purtroppo, qui in Germania, un gran poco da ascoltare.
Ma il momento più bello è quando esco dal metro per prendere l'autobus che mi porta al lavoro.
Certo, è molto più scomodo. Non posso leggere, si sta stretti e si sballonzola tutto il tempo. Delle volte mi viene addirittura la nausea. Ma ci si conosce tutti, anche solo di vista. Passa in mezzo ai campi, si vede un po' di verde o di bianco se c'è neve e, se il tempo lo permette, si vedono anche le montagne in lontananza.
E soprattutto c'è l'autista. Ce ne sono diversi. La mattina di solito sono calmi, rilassati. Si fumano una sizza prima di partire, in camicia fuori dall'autobus, mentre ci sono cinque gradi sottozero.
Ma la sera, quando torno, sono fuori come dei pomeli cinesi. Guidano a seicento all'ora. Isterici. Odiano il mondo, in particolare gli automobilisti. Per evitare le macchine salgono sui marciapiedi, chiudono le curve pensando di guidare una cinquecento, inchiodano a dieci metri dalla fermata. I vecchi che entrano rimangono vivi per qualche miracolo di San Weisswurst, probabilmente. Se ti siedi nei posti dietro, quelli sopra il motore, lo senti messo alla frusta con delle accelerate degne del peggior Fisichella. Delle volte, quando si lanciano sul rettilineo modello chilometro lanciato, gli autisti sbandano e prendono il marciapiede: i tedeschi sembrano abituatissimi, ma io mi cago in mano.
Se provi a chiedergli qualcosa, ti mandano a quel paese. Quel paese penso sia Karsfeld. Quando le gente deve fare il bigliettino alla macchinetta giusto dietro di lui, l'autista del 172 normalmente ci mette ancora più cattiveria nella guida, mentre il malcapitato di turno deve fare acrobazie per tenere la borsa, contare gli spicci, selezionare il pulsante giusto, mantenersi al corrimano, riprendere gli spicci che la macchinetta sistematicamente rifiuta, scaldare gli spicci al lato della macchinetta (chi avrà mai scoperto che se strofini le monete sulla macchinetta, come a farle le coccole, questa sarà più incline ad accettarle??), finalmente ritirare il biglietto, mantenersi in equilibrio senza punti di appoggio mentre mira il buco dell'obliteratrice, per poi vidimare il biglietto mentre oramai l'autobus è già arrivato al capolinea. E in tutto questo l'autista fa diventare il mezzo come un toro imbizzarrito, ed il passeggero del biglietto si sente come in una di quelle estenuanti pesche in mare aperto, quelle che si fanno con la sedia del ginecologo.
Insomma, la sera io questi autisti li odio.
O meglio, li odiavo, fino a tre giorni fa, quando ho incontrato il mio idolo.
Ero lì come al solito, che aspettavo alla fermata facendo rumore con le scarpe, smuovendo i sassolini che mettono sui marciapiedi per non fare che il ghiaccio rompa i femori della gente. Cercavo di scaldarmi un pochino. Ad un certo punto vedo l'autobus che mette la freccia verso la via della fermata, ed il solito piccolo sospiro di sollievo si unisce a quella sensazione di caldo anticipato.
Entro dalla parte anteriore, perchè chi è abitudinario lo capisce. E perchè i posti davanti sono quelli panoramici. E vedo questo autista nuovo. Cinquantenne. Cotonato, capelli scolpiti come il cosmonauta di Good Bye Lenin. Si alza per togliersi la giacca. E' alto, una figura elegante. Sotto la giacca ha una magliettina di lana nera attillata, con il collo a dolce vita. Subito il mio sguardo si posa sulla sua mano destra, mentre con un gesto plastico avvolge la giacca attorno al suo sedile molleggiato. Ha un polsino. Sembra blu. E bianco. E rosso. Noooo, penso. Ha un polsino con la bandiera di Cuba. Idolo all'istante. Entra una signora, e deve fare il biglietto. Et voilà, penso io. Non ha gli spicci, ha solo un biglietto da dieci. Errore gravissimo, in Germania non puoi sbagliare. Chiede al conducente il cambio in moneta: cosa sta rischiando, penso io. Ed invece il filocubano la guarda, le sorride (!!!), e le fà un gesto come dire: lascia stare, offro io. Ovviamente, la signora non capisce. Lui di nuovo le fà un altro gesto, e senza dire una parola le fà capire di accomodarsi, che questo giro è gratis.
Io osservo la scena, vorrei abbracciare il mio nuovo autista preferito. Parte la corsa, e so già che sarà dolce e piacevole, con quel polsino cubano a guidare sapientemente il volante.
Adelante, compagnero!!

mercoledì, febbraio 13, 2008

Amo Wikipedia

Senza dubbio il 2001 é stato l'anno dell'11 Settembre. L'attacco alle torri gemelle, la guerra al terrore, gli americani incazzati e casini con l'islam. Silvio é tornato al potere, c'é stato il casino del G8 a Genova, collassa la ENRON, l'ennnesimo sottomarino yankee fa colare a picco un peschereggio giappu, la Cina e gli Stati Uniti diventano partner commerciali, in Olanda i gay si sposano, c'é un'eclisse totale di sole ed il primo turista spaziale, esce Windows XP e OSX 10 e la Roma di Totti e Batigol si porta a casa lo scudo.

Ma c'é un'altra cosa che é successa nel 2001, e che ha cambiato la mia vita.
Nel 2001, precisamente il 15 Gennaio, Wikipedia é stata messa online.

Io adoro Wikipedia. Adoro il concetto che costituisce Wikipedia, adoro come funziona, adoro i suoi contenuti.
Posso stare delle ore a perdermi per le sue pagine: é come comprare una edizione della Settimana Enigmistica che ha due milioni di pagine di "Forse non tutti sanno che..". Io ho sempre guardato, nella Settimana Enigmistica, prima "Forse non tutti sanno che", poi "Strano ma vero", e poi tutte le barzellette (si, non sono un grande enigmista).
Ma Wikipedia é molto, molto di piú. Wikipedia sa tutto.
Ad esempio, lo sapete che 27 anni, la mia etá, é il tempo medio che una particella d'acqua rimane nel Lago di Garda da quando ci entra a quando esce?
O che Ban Ki-moon, la sera della sua elezione a capo delle nazioni unite, si é messo a cantare "Santa Claus is coming to town", cambiando le parole con "Ban Ki-moon is coming to town"?
O che il culto di John Frum, nell'isola di Tannu delle Vanuatu, é legato al culto del cargo? Lo stesso culto del cargo che quel matto di Erich von Däniken dice sia alla base delle Linee di Nazca, a suo dire costruite dagli indigeni per adorare gli alieni che venivano a trovarli ogni tanto.
E che dire di Santi Quaranta, la cittá dei matrimoni, una delle piú famosi localitá turistiche albanesi? E dei Warner Bros, che sono nati nientedimenoche a Krasnosielc, in Polonia?
Oggi, ad esempio, ho scoperto che Ernesto "Tito" Beltran, tenore cileno-svedese, é stato condannato a due anni di prigione per aver stuprato la baby sitter dei suoi figli durante un tour.
Un paio di giorni fa ho letto che la Emma Maersk é una nave porta container lunga 400 metri, e che é la piú grande nave che scorazzi per le nostre acque: a natale di due anni fa la avevano chiamata SS Santa perché portava un carico di giocattoli dalla Cina in Inghilterra il 20 di dicembre.
E le foto! Le foto di Wikipedia, sono bellissime. Ho scoperto che l'ora che mi piace tanto, quelle sette di sera che mi sogno per tutto il giorno, i fotografi la chiamano Golden Hour.

Io voglio essere Wikipedia. Vorrei conoscere i dettagli dell'orso bruno, cosí come le applicazioni delle equazioni degli autovalori. Mi piacerebbe conoscere la biografia del chitarrista die mitici Bijelo dugme (oramai il mio gruppo preferito), o sapere di piú della leggenda di Pinos Puente.
Potró mai essere Wikipedia? Adesso vado a cercare su Wikipedia se c'é qualcuno che l'ha letta tutta..

giovedì, gennaio 17, 2008

domenica, dicembre 09, 2007

Non

Non mi piace dover essere bello.

Non mi piace essere alla moda.

Non mi piace apparire come gli altri.

Non mi piace apparire come quelli che vogliono distinguersi dagli altri.

Non mi piace essere atletico, non mi interessa essere intelligente.

Non mi piace pensare come gli altri.

Non mi piace fare quello che fanno gli altri.

Non mi piace rendere conto.

Non mi piace aderire.

Non mi interessa che mi giudichino.

Non mi interessa essere etichettato.

Non mi interessa cosa pensano di me.

Non mi piace non dire le cose perché non si devono dire.

Non mi interessa aderire ad alcuna ideologia.

Questo forse significa voler essere libero? Indipendente? Sinceramente, non mi interessa.

lunedì, novembre 19, 2007

Nouvelle cuisine

La cucina é sempre stata una mia passione: non solo mi piace scofanare qualsiasi cosa incontri, ma mi piace anche cucinare ogni tanto qualcosa.
E di osare, creando nuovi piatti, mettendo a frutto la mia creativitá, dando sfogo alle mie intuizioni.
Ieri ho toccato le vette della cucina mondiale.

BAROLO E PRINGLES.

Un'esperienza da provare.

venerdì, novembre 09, 2007

Che schifo

Traggo da Gazzetta.it la notizia del nuovo accordo sulla ripartizione die diritti televisivi per il calcio, che di per sé é una notizia positiva. Leggevo delle trattative, in questi ultimi mesi, pensando che fosse una buona cosa.
Ma dopo aver letto le parole che riporto qui sotto, mi sono imbufalito:

"Il calcio italiano sarà più competitivo, più equo, più valorizzato a livello internazionale e attento ai vivai e ai dilettanti". L'auspicio è di Giovanna Melandri, ministro alle Politiche giovanili e alle attività sportive, e arriva nel giorno in cui il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo che attua la nuova legge quadro sui diritti sportivi. "Un decreto che recepisce alcune delle riforme che ci aveva chiesto la Lega Calcio - ha aggiunto la Melandri - e che ha come primo obiettivo la valorizzazzione del prodotto Calcio in Italia. Con il passaggio alla gestione ed alla negoziazione collettiva dei diritti audiotelevisivi introduciamo un nuovo sistema sulla "contitolaritetà" dei diritti in capo alle Leghe per dare maggiore valore al prodotto e ridurre quel divario, oggi molto profondo, nell'equilibrio complessivo tra piccoli e grandi club".

Ci siamo ispirati al modello Uefa - aggiunge - e questa norma darà maggior valore al calcio italiano. La riforma ridurrà il divario, oggi assai profondo, tra piccoli e grandi club. Un divario che oggi è di 7-8 a 1 e che con il decreto legislativo si ridurrà a 4 a 1, cioè la media europea. Sono convinta - precisa - che questo avrà effetti importanti anche sullo spettacolo sportivo". Il decreto attuativo della legge delega approvato oggi recepisce la ripartizione delle risorse decisa dalla Lega calcio: il 40% dei proventi sará distribuito equamente tra tutte le societá di serie A, mentre il 30% sará ripartito tra tutte le squadre in base ai risultati sportivi conseguiti e il restante 30% secondo il bacino d'utenza.

I miei pensieri:

  • "la valorizzazione del prodotto Calcio": é una frase agghiacciante. Mi si gela il sangue a sentirla nella mia testa mentre leggo. Questa frase é un esempio dello scempio che in Italia si sta facendo della nostra lingua. E poi il calcio non é un prodotto, é una passione, uno sport, che viene sfruttato e crea un indotto economico di grande valore. Il calcio si scrive con la c minuscola. E certo non c'é bisogno di valorizzare un qualcosa che da 50 anni fa letteralmente andare via di testa 30 milioni di italiani.
  • la contitolarietá per dare valora al prodotto e ridurre il divario nell'equilibrio complessivo: come si fa a dare ascolto a dei politici che parlano cosí? Arroganza, boria e pergiunta un livello culturale infame.
  • Il divario, secondo la Melly, varierá da 8-1 a 4-1: minchia, che culo! Praticamente vuol dire che adesso inter siena non finisce 4 a 0, ma solo 2 a 0.
  • Questa enorme riforma (quella della valorizzazione, della riduzione del divario, della contitolarietá), finisce per spartire solo il 40% die proventi tra tutte le squadre. Il restante 60% se lo beccano sempre le solite. Buffoni.

Questa dichiarazione, questa decisione, mi fa vomitare: é un esempio dello schifo e dello scempio che sta accadendo nel nostro paese. Stiamo sprofondando, sempre piú in basso. Le istituzioni sono ridicole, e la cosa piú allucinante é come molta gente non se ne renda conto. Neanche nel calcio si prendono delle decisioni, si fanno dei cambiamenti. Siamo il paese dei gattopardi, ma i gattopardi arroganti e zotici.
Che schifo. Io in Italia non ci torno piú.

martedì, novembre 06, 2007

Domanda

Credo che, nella vita, non si smetta mai di prendere delle decisioni. Probabilmente peró ad un certo momento ci si ritiene soddisfatti, e ci si siede a vedere quello che si ha combinato.
E quando si arriva a quel punto, viene naturale pensare che, oramai, tutte le risposte siano state trovate. Ma le domande? Quelle continuano a venire?

Lo dico perché io sono sempre pieno di domande. E con il tempo aumentano.
La domanda che mi viene in questo momento é generazionale.
Come ho piú volte scritto in questo spazio, la mia generazione non é dannata, sicuramente non é affamata, e per quel che mi riguarda non é neanche bruciata. Non ancora, perlomeno.
Ma é soprattutto viziata, disillusa, stressata ed ingannata.
Viziata perché ha avuto tutto, la pappa pronta.
Disillusa perché non crede in nulla, se non a delle squadre di calcio o a qualche gruppo musicale. E per me questo é il nulla.
Stressata perché deve soddisfare delle aspettative fortissime: tutti devono bellissimi, magrissimi, intelligentissimi, bravissimi, con il pisello lunghissimo, i capelli lucentissimi, con un lavoro importantissimo, ricchissimi: in una parola felicissimi.
Ingannata perché, evidentemente, non puó soddisfare molte delle aspettative sopra elencate, nonostante sia stata educata con la promessa che tutto sarebbe stato possibile. Vuoi essere una modella? Dimagrisci. Vuoi vincere il nobel? Studia un pochino. Tutte balle: é evidente che un rospo, modella non lo diventerá; cosí come una persona normale, il nobel non lo becca. E questo a cascata su tutto: chiedete a chi vuol diventare medico, avvocato, calciatore, pilota: sono pochi quelli che lo diventano sul serio, nella nostra generazione. Gli altri ci provano: studiano giurisprudenza ma poi devono inventarsi in un altro lavoro, si allenano nei campetti ma finiscono per giocare a calcio solo alla Play.
Siamo stati quindi, evidentemente, ingannati.
Ed é da questo inganno, e da questo stress, che nasce l'angoscia che aleggia intorno alle nostre vite da ventenni. Qualcuno la sfoga sfondandosi di coca, o di cubalibre, o di amici di maria de filippi (personalmente punterei sui cuba libre, di gran lunga i meno dannosi). Altri vivono nell'apatia, trascinandosi. Altri ancora non ci pensano e si rimboccano le maniche piú di tutti per riuscire ad avere successo: onore a loro.
Ma la maggior parte, quella parte che io credo maggiore perché ne faccio parte, si angoscia e basta.
Ed allora mi fermo a pensare ai nostri laboriosi genitori, alle loro vite che ci sembrano cosí pure, cosí limpide. Mi fermo a pensare al loro percorso, ai loro sacrifici che ci sembrano molto piú grandi dei nostri, alle loro difficoltá che ci descrivono come molto piú vere delle nostre, ai loro ostacoli che ci sembrano muraglie cinesi, in confronto ai nostri strimiziti valli di Adriano.
Da tutto questo fermarmi a pensare, mi sorge la famosa domanda:

Ma i nostri genitori, alla nostra etá, si angosciavano anche loro?

Nella mia mente, no. Ma c'é qualcosa che non quadra..

mercoledì, ottobre 24, 2007

Attenzione ed entusiasmo

Con il tempo, sto imparando a capire quanto siano importanti l'attenzione e l'entusiasmo in quello che si fa. Il talento, le capacitá, contano sino ad un certo punto: sono la motivazione e l'applicazione che ti portano avanti.
Maradona ce n'é uno solo, tutti gli altri si devono allenare tutti i giorni.

Ma c'é un problema. Questo contrasta con un figlio della generazione del computer, come me. quella generazione cresciuta a pane e spot di trenta secondi. Quella generazione del tutto e subito, pazienza zero. Quella degli articoli lunghi due paragrafi, delle serie televisive a piccoli sketch, dei quotidiani usa e getta del tram. Massí, quella della sveltina.
Ed allora é difficile tenere l'attenzione costante, o l'entusiasmo alto. Attenzione ed entusiasmo cominciano ad andare e venire, ma non come delle onde.

Vanno e vengono a sprazzi. Come al giro d'italia. Come in quelle tappe tra una crono e un tappone, quelle della prima settimana. Dove in gruppo ci sono ancora tutti, e davanti ci sono i gregari del futuro campione che tarellano come dei matti, tanto il giro non lo finiscono. E tu stai lí, in quel pomeriggio ozioso, in poltrona o al bar, con l'estate alle porte. Ed il telecronista parla, parla, riempie il vuoto televisivo di duecento corridori che pedalano con aneddoti sulle specialitá tipiche del luogo, con cartoline del posto, con aneddoti sul numero 126 in gara.
E poi, ad un certo punto, un pirla qualsiasi si alza sui pedali e parte.
Mancano 120 chilometri al traguardo, la media del gruppo é 55 chilometri all'ora, ma lui parte. Si defila sulla sinistra, ed esce dal gruppo come uno spermatozoo impazzito. Uno tenta di seguirlo, ma desiste. La moto della televisione scatta prontissima, lo segue e comunica il numero sulla maglietta. Il telecronista si prende un attimo, deve controllare sulla sua lista il nome del corridore, mica lo conosce quello lí. Dalla regia partono le dritte su nome, squadra, ruolo, ultime prestazioni. Il gruppo non reagisce, continua al suo passo, costante. Quel pirla lá davanti si dá da fare come un matto, sfreccia tra gli sparuti spettatori. Parte anche la telecamera dall'elicottero, che fa vedere la fuga ed il distacco che aumenta: sulla destra, in un prato, si scorge anche un "W LA FIGA" scritto da qualche birba, che sperava proprio in una ripresa dall'alto. E' un bel pomeriggio di giugno.
Il telecronista aggiorna ogni minuto il distacco del fuggitivo dal gruppo maglia rosa, che per i primi dieci minuti aumenta. Sono i suoi momenti di gloria. Lo sponsor lo ringrazierá. Cerca di goderseli, l'espressione sul volto impegnata fa capire lo sforzo e la concentrazione.
Passano altri dieci minuti e il vantaggio si stabilizza definitivamente, e poi ancora senza nessun motivo comincia a diminuire. Ad un ritmo sempre piú veloce. E' impietoso il telecronista, il distacco scende ancora. La moto della televisione glielo ricorda, con delle lavagnette insopportabili. Il vantaggio scende, dall'alto si vede: lo hanno quasi preso. Il fuggitivo si guarda indietro diverse volte, e quando infine vede il gruppo, molla tutto. Sa giá che taglierá il traguardo un quarto d'ora dopo il gruppo.
Lo spermatozoo impazzito viene di nuovo fagocitato dal branco, e dopo pochi secondi é giá difficile scorgerlo in mezzo a tutte quelle maglie. Ridisceso nell'anonimato, con la stessa rapiditá con la quale ne era uscito.
Tra un quarto d'ora ne partirá un altro.
Il gruppo riprenderá anche questo, il gruppo é troppo forte.

Ecco, io penso che delle volte la mia attenzione e il mio entusiasmo siano come questi ciclisti dalle fughe improbabili: belli spunti, poco risultato

lunedì, ottobre 15, 2007

Adoro Flavio Briatore

Trovo pazzesca la velocitá con la quale si dimenticano i sogni la mattina.
Per qualche anno ho tenuto a fianco al letto carta e penna, per avere subito a portata di mano qualcosa su cui scrivere i miei sogni, ed in qualche maniera fissarli.
Poi ho smesso, stanco di decifrare i geroglifici che scarabocchiavo nel mezzo della notte, o la mattina presto mentre mi giravo e rigiravo nel letto come un involtino primavera. Ho scoperto peró che un’altra maniera di fissare i sogni é quella di raccontarli subito a qualcuno, come se questo fosse una prova che i sogni siano realmente accaduti, anche se pur sempre in sogno..
Non so come mai trovi particolarmente irritante il dimenticarsi dei sogni, forse perché sono migliaia di ore della mia vita che rischiano di cadere nell’oblio, e mi fermo a pensare che giá la vita é corta abbastanza per accorciarla ulteriormente.
Comunque sia, oggi mi ricordo cosa ho sognato.
Io e Flavio Briatore siamo ad una cena di gala, una di quelle in quei saloni grandi, con tutti vestiti eleganti e i tavoli rotondi. Al nostro tavolo c’é Elton John, con in braccio un cagnolino insignificante: Elton John é uno di quei personaggi che mi risulta particolarmente indifferente. Verso il buon Flavio invece provo una strana simpatia, visto che rappresenta forse quanto di piú io odii del mio paese: ma forse é la sua maniera sfacciata e sincera di vivere quello che rappresenta che lo fa rientrare tra le mie grazie.
Al tavolo c’é anche qualcun altro, di solito il prezzemolino dei miei sogni é Ale, che se ne sta in disparte.
Mentre stiamo pasteggiando, irrompono due killer armati di mitra, si piazzano di fronte a me e cominciano a far fuoco. Io mi getto ai piedi del tavolo, raggomitolandomi e facendomi piccolo, nella speranza che il legno del tavolo sia una difesa sufficiente. Date le mie movenze feline, i killer non hanno fatto in tempo ad accorgersi di me. Da sotto il tavolo vedo i loro volti eccitati dalla violenza, mentre svuotano i caricatori nella schiena del povero Elton e del suo cagnolino. Percepisco che la mia fine si sta avvicinando, quando, toh, accanto a me trovo un Uzi calibro 9 (600 colpi al minuto) che impugno e punto verso i due assassini. La mia mira non é un granché, ma riesco comunque a prenderli in faccia: chiudo gli occhi per non guardare lo scempio che ho causato.
Mi rialzo, e Briatore si é trasformato in una sorta di Rambo: gli chiedo se lo hanno colpito, lui dice che non é nulla, ma vedo la spalla che gli sanguina e che zoppica. Si avvicina ad Ale, che ora é diventato un vietnamese mio collega di lavoro che sta vaneggiando, sotto shock per la scena. Flavio gli lancia dell’acqua sulla fronte, con un gesto strano e dicendo parole magiche : il cinovietnamita strabuzza gli occhi e, come per incantesimo, improvvisamente si calma.
Mi sveglio dal sogno, neanche troppo agitato. Merito di Briatore.
Magico Flavio. Mai piú senza di te.

lunedì, ottobre 08, 2007

Autunno

Autunno, oramai.
Aria fredda che punge sulle guance. Colletto della giacca alzato e occhi che si fanno piccoli per il sole basso all’orizzonte. Luce gialla. Vento che smuove gli alberi, che fa cadere le foglie gialle, rosse, marroni, secche.
Cammino e le mie scarpe spostano le foglie. Mi piace il rumore che fanno le foglie secche. Mi piace quel suono netto quando le schiacci, e quel fruscio quando le sposti tutte insieme. Cerco di passare dove ci sono piú foglie possibili, per addentrare le mie scarpe in questa giungla di foglie, che non sai cosa c’é in mezzo, cosa c’é sotto. Ed é come quando mi fermo a ricordare, come quando nella mia mente rovisto tra i ricordi, che suonano come foglie secche anche loro: e sono bei ricordi, mi fanno sorridere, mi fanno sentire vivo, mi riempiono di speranza.
E continuo a camminare, e vorrei che la fermata dell’autobus oggi fosse un po’ piú lontana, per potere smuovere altre foglie, per potere rovistare tra altri ricordi, per stringermi di nuovo il colletto della giacca e sentire quella sensazione di calore, per sorridere al futuro.

Autunno, ancora.
L’aria é meno fredda, ma la pioggia scende un po’ pigra. C’é poca luce, e le macchine hanno i fari accesi. Non so se aprire l’ombrello, mentre i miei capelli diventano umidi; non se aprire la giacca, mentre comincio a sudare. Le mie scarpe sono impegnate a non finire in mezzo a delle pozzanghere. Qualche passante ha l’ombrello aperto, decido di imitarlo. Le foglie ci sono ancora, per terra. Ma sono bagnate, appiccicate, piú piccole. Si raggruppano tutte insieme, alcune sembrano marcite. Provo a camminarci sopra, e per poco non cado a terra. Non c’é piú quel suono secco, quel fruscio. Solo il suono della gomma delle mie scarpe che scivola. Tento, anche questa volta, di far riaffiorare qualche ricordo che mi conforti. Non mi viene in mente nulla, e allora forzo qualche ricordo di ieri, quando lo sentivo cosí vivo. Ma non funziona, anche i ricordi sono bagnati, non fanno piú quel bel rumore nella mia testa: sono gli stessi di ieri, ma questa volta non c’é nessun sorriso sulle mie labbra. Mi fanno sentire solo un po’ piú solo.
Cammino, cercando un lato del marciapiede dove ci siano meno foglie. Meno male che la fermata dell’autobus é vicina, penso mentre aspetto che il semaforo sia verde.

martedì, ottobre 02, 2007

Grand Tour de Piroga Pride - tappone a Monaco

Tempo di nuovo trasloco, e tempo di piroga pride. Questa volta a Monaco, per venirmi a trovare.
Come al solito, ci sarebbero molti aneddoti da raccontare. Ci sarebbero anche molti tormentoni, che ci hanno guidato per questi giorni passati insieme, ma quelli se ne andranno, nell’oblio del tempo destinato a scorrere assieme alla nostra amicizia.
Ci sono state sicuramente molte birre, litri di birra, a lubrificare i nostri momenti, ad accelerare le nostre serate, a scomporre i nostri stomaci. La follia di una festa come l’Oktoberfest, all’inizio criptica, poi genuina per quello che abbiamo visto, che ci ha permesso di ballare sui tavoli, brindare con nuovi amici, farci cantare a squarciagola.

Anche il sole bavarese ci ha tenuti in ballo un po’, e dopo essersi negato ed averci offerto agli dei della pioggia, ha deciso di fare capolino nelle nostre mattine assonnate, di disturbare con i suoi riflessi il russo che gioca alla play, di scaldarci ai tavolini di un bar, di rassenerare le nostre passeggiate in una cittá a me ancora parzialmente conosciuta, e quindi parzialmente apprezzata. Temevo che la cucina bavarese non fosse ritenuta all’altezza, ma alla fine i brezel (altrimenti chiamati ‘volanti da formula uno’ da Ale) hanno fatto colpo anche sul resto del gruppo.
Ma ci sono delle cose che non sono mai state in discussione, come le felicitá di stare insieme. E questa é la cosa che mi fa sentire cosí unito, cosí parte di qualcosa. Quando basta uno sguardo per capirsi. Quando si cammina, si gioca, si ride, si mangia tutti insieme. Quando tutti insieme si parla, milioni di parole, centinaia di gesti volti a discutere insieme. E poco importa che ci siano delle eccezioni: dovró segnarmi sull’agendina di non appartarmi in un divanetto con Mattia in un locale buio, i suoi monologhi ricordano quelli di Fidel Castro.

Importa che le cose si vivano insieme, che ognuno porti quello che ha: il suo entusiasmo, il suo talento, la sua cocciutaggine, la sua fedeltá, la sua imprevedibilitá. Importa, ed io ne sono orgoglioso, che ognuno porti quello che ha in maniera umile (chi piú, chi meno..), e che sia pronto ad offrirlo per costruire una cosa insieme: da un discorso importante, alla scelta di cosa fare, al ruolo in un torneo di winning. Per creare quella atmosfera da vix vaporub, che fa star bene. E non per creare quella atmosfera creatasi in casa, che ho dovuto dar fuoco ai divani per disinfettare il tutto. Certo, adesso ho imparato a dover nascondere i miei i capi d’abbigliamento di punta, prima che Fede se ne possa appropriare e di riflesso attrarre lo sguardo delle donne per strada.

Ad ogni modo, non faccio in tempo a provare nostalgia per questi giorni, perché giá penso a quando potremo riincontrarci. Sará forse Sasha a portarci tutti a Hollywood, la capitale del grande cinema, o forse meglio a Budapest, la capitale del grande cinema porno? E Fede, rimarrá nella sua valle ad invitarci ogni weekend, o forse ci soprenderá? Ale invece, metterá finalmente in atto uno dei suoi milioni di progetti, per ospitarci nei peggiori bar di Caracas? Saró forse di nuovo io a spostare questi disperati, questa volta in terra spagnola ? O forse l’avvocato ci regalerá una sorpresa? Per quanto riguarda Mattia, neanche i famosi ricercatori della Pennsilvania sono riusciti a scoprire un algoritmo che preveda le sue scelte...

Alla prossima, e speriamo che sia sempre come é, come é stato, come deve essere.

martedì, settembre 25, 2007

giovannibinet raddoppia

Da adesso, scrivo anche qui.

giovedì, luglio 26, 2007

flickr

ho messo delle foto su flickr (link sul titolo)

mercoledì, luglio 25, 2007

Senza paura

Addio Olanda, addio terra dei Playmobil.
Addio Olanda, non ci siamo mai capiti. Non credo ti rimpiangerò. Non credo rimpiangerò i tuoi abitanti, gli Oranjes, forse le persone più arroganti finora incontrate. Non credo rimpiangerò la tua cucina, le tue crocchette, le tue frikandel, il tuo odore di fritto che pervade l’aria già una volta usciti dagli arrivi di Schiphol.
Addio Olanda, addio paesi bassissimi: per un anno intero, ho tentato di convincermi che eri un posto bellissimo, ma poi mi sono arreso all’evidenza.
Ci ho anche messo del mio, nel non amarti. Nel mio non cercare il tuo mare, le tue dune, i tuoi canali. Addio olandese, lingua dialettica e dai suoni gutturali: sei la mia più grande sconfitta, non ho scuse. Addio pannekoek, addio storia d’amore con il loro cuoco: loro sì, le rimpiangerò, e rimpiangerò di non essere riuscito a finire la raccolta dei bollini.
Addio Super de Boer, addio Albert Hijn, addio Digros, addio Konmarkt: addio grandi offerte, ma scarni supermercati. E soprattutto addio, e a mai più, alle vostre musichette tra il corridoio della birra e quello dei formaggi: farebbero venire un esaurimento nervoso anche a Gandhi.
Addio tempo olandese. Ho imparato una lezione: una nazione dove qualsiasi persona è costantemente al corrente delle previsioni del tempo per la settimana successiva, è una nazione da evitare. Prima dell’Olanda, avevo visto grandinare tre volte in vita mia. Nel mio primo mese a Leiden, già ero arrivato a sei.
Addio ciclisti. Voi mi mancherete, ma vi do un piccolo consiglio: non siete immortali, quindi ogni tanto qualche frenata non andrebbe male. Addio treni, a voi mi ero affezionato. Addio torte di mele, addio cannella ovunque.
Addio alle strade olandesi, alle autostrade con i semafori e i ponti che si alzano, alle vostre stramaledette corsie: a me piace guidare in mezzo alla strada, cambiare da destra a sinistra senza alcun tipo di ragione, non mettere mai le frecce, suonare il clacson, commettere infrazioni. So che, purtroppo, per questo mi dovrò trattenere. Addio, Planet: vi odio.
Addio birra calda e sgasata. Per una buona volta, sfatiamo il mito della Heineken: fa veramente schifo. Addio locali minuscoli, con musica altissima, cortina di fumo densissima, ed olandesi immobilissimi.
Addio sboroni di Leiden, voi che passate le vostre serate su panfili da canale, con la bottiglia di rosè ed un paio di fighe a bordo. Addio alle vostre risate sguaiate. Addio ragazze di Leiden: a migliaia, prosperose, con gli stessi stivali per tutto l’anno. Addio Veronica: aspetto di vederti presto sugli schermi italiani. Addio radio olandesi, spero che presto cambierete la vostra rotazione di dischi, perché in due anni è sempre rimasta la stessa. Addio Phil Collins.
Addio coffee shop: mai, prima di venire in Olanda, avrei accostato le droghe leggere alla musica techno: voi lo fate, peraltro con risultati scarsissimi. Addio cinema Lido theater: non dimenticherò mai le battaglie a colpi di rutti e ali di pollo volanti durante i film.

Ma soprattutto addio, spero, senso di inferiorità. Non voglio mai più subire del razzismo, non me lo merito.

Non un addio, ma un arrivederci, ai miei amici, che mi hanno fatto sopravvivere in questa, come la chiama il Canestri, valley of sorrow.

Dopo un addio, per fortuna, c’è un benvenuto. Più che altro un inizio, una nuova pagina da affrontare. Tutto quello che mi posso dire, è racchiuso nella canzone che metto qui sotto. Ed è anche un augurio, ed un invito, a come mi dovrei comportare e a come bisogna affrontare le cose.



Ndr: con questa nuova avventura dell’autore, anche il blog cambia pagina. Ho cominciato a scrivere qui, oramai quasi tre anni fa, con l’intenzione di scrivere cose interessanti, per avere uno sbocco a quelle cose che delle volte mi girano in testa. Non ho mai avuto l’intenzione di farne un diario privato, ma lo è in parte diventato. Da adesso, ritornerà ad essere esclusivamente un posto dove mettere delle cose che io ritengo interessanti o degne di nota.

mercoledì, luglio 18, 2007

Addio esa

venerdì, giugno 29, 2007

Trasferimenti

Finalmente, arrivano anche per me novità, cambiamenti. Oramai è ufficiale, tra un mese mi trasferisco in Germania, in quel di Monaco di Baviera: boccali di birra, campi di grano, dolci colline, salsiccie bianche. Sinceramente, non so molto di più. Ma la sfida, la nuova avventura, fortemente voluta da me, è lì pronta per essere intrapresa. D'altronde, per appoggiare la coppia Luca "il bello" Toni e Frank "lo sgorbio" Ribéry, ci voleva proprio Giovanni "il pirleti" Binet.
Qui di sotto una foto scattata durante la presentazione ufficiale dei tre campioni.



ndr: Roy "nasone" Makaay è stato ben lieto di cedere il suo numero di maglia al talentuoso Binet.

martedì, giugno 19, 2007

Acerrimi nemici

E' incredibilmente facile farsi nemici: chiedere a Aldo Buscetta. Ma non é necessario passare la propria vita in un clan mafioso e poi raccontare tutto alla polizia, basta fare un viaggio in Cina e non portare a tutti quelli che conosci perlomeno un computer, qualche giga di memoria e un massaggio prenotato ciascuno.

domenica, giugno 10, 2007

foto dall'estremo oriente - Bangkok

Continuo con alcune foto del viaggio in oriente.

Lezioni criptiche..



Acconciature buddiste..


Lo stupendo Wat Arun.



Il grande palazzo e i suoi templi.




Ecco uno dei mitici Tuk Tuk. Ne ho visto uno con sei passeggeri.

venerdì, giugno 08, 2007

foto dall'estremo oriente - La grande Cina

Ecco la skyline, con tempo da monsone, di Shanghai. Passano, in centro, queste merci, e dietro il centro finanziario, presto centro del mondo.. come siamo piccoli e stolti, noi europei!
Dopo, il mio viaggio sul Maglev... 430 km/h.. spettacolare..



A Shanghai, come penso nel resto delle metropoli, stanno costruendo l'impero che sta per dominare il mondo. Nel frattempo, hanno un paio di cavi che non sanno che farsene..




Le metropoli cinesi, come Canton, sono costellate di questi orribili caseggiati, enormi. Io non ci potrei mai vivere, solo per le vertigini. Migliaia e migliaia di queste case, molte nuovissime, che rendono le città dei conglomerati di esseri umani.

La pagoda di Canton: oasi di pace in una metropoli senza capo nè coda, con solo umido e caldo.

La fantastica skyline di Hong Kong: un posto pazzesco.



Giovi al ChanG Kai Shek memorial di Taipei. Vecchi sapori di regime: ah, il vecchio Kuomintang...



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